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Marmo di Carrara

decorazione lapidi marmo carraraIl marmo di Carrara (per i Romani marmor lunensis, "marmo di Luni") è un tipo di marmo che è estratto dalle cave delle Alpi Apuane in territorio di Carrara, universalmente noto come uno dei marmi più pregiati. Con questo marmo sono state realizzate alcune delle più importanti opere architettoniche e scultoree del mondo.

Storia

Le cave di pietra delle Alpi Apuane erano probabilmente già utilizzate durante l'età del Ferro dai Liguri di Ameglia (località Cafaggio, SP). La necropoli di questo sito, a pochi chilometri a sud-ovest della colonia romana di Luna, è datata al IV secolo a. C. Il sito è caratterizzato da sepolture a incinerazione poste entro cassetta (cista) di lastre di pietra scistosa provenienti dal vicino promontorio del Corvo, ove sono pure presenti giacimenti di marmo bianco. Non a caso, la seconda fase di utilizzo del cimitero (I - II secolo d.C.), presenta cremazioni, ma pure sepolture a inumazione nella nuda terra con una rudimentale cassa di copertura composta da materiali di recupero; fra di essi, appunto, frammenti di marmo.
Operai nelle cave intenti alla fabbricazione di mortai, quadrette e balaustre di marmo.
Disegno a penna e acquerello di Saverio Salvioni, Massa, 1810 ca.
L'attività estrattiva vera e propria si sviluppò a partire dall'epoca romana, e conobbe il maggiore sviluppo sotto Giulio Cesare (48-44 a.C.).
L’esportazione, che avveniva tramite il porto di Luni (ragion per cui il marmo delle Alpi Apuane è detto, in archeologia, marmo lunense), assunse allora un’entità tale da rifornire le maestranze preposte alla costruzione delle maggiori costruzioni pubbliche di Roma e del suo impero e di numerose dimore patrizie.
Delle cave più antiche, distribuite nei bacini di Torano, Miseglia e Colonnata, non resta molto, poiché l’attività estrattiva protrattasi nei secoli ha causato la loro progressiva distruzione. In tal modo, cave come quella di Polvaccio e Mandria (Torano) e Canalgrande (Miseglia) sono andate perdute. Sono, invece, ancora integre le cave di La Tagliata (Miseglia) e Fossacava (Colonnata), sebbene scarsamente valorizzate da un punto di vista storico-archeologico e turistico. Un'altra cava di origine certamente antica, è la cosiddetta Cava Romana di Forno (Massa), oggetto di diatribe legali per violazioni ambientali e alla quale nel 2017 non è stata rinnovata la compatibilità ambientale.
Dal V secolo l'attività estrattiva subì un periodo di stasi a seguito delle invasioni barbariche. Più tardi, con la maggiore diffusione del cristianesimo, il marmo fu richiesto in grandi quantità per l'edificazione degli edifici religiosi e per il loro arredo interno.
La fervente attività delle cave si dovette soprattutto ai Maestri comacini, a Nicola e a Giovanni Pisano, che lo utilizzarono per le loro opere nell'Italia centrale.
Durante il Rinascimento fu il marmo utilizzato da Michelangelo, che veniva a scegliere personalmente i blocchi su cui lavorare.
Tra la fine del XVIII e il XIX secolo ci fu un rapido incremento delle cave, che cominciarono a concentrarsi nelle mani di pochi grandi concessionari, e l'"industrializzazione" dell'attività estrattiva, che richiamò un gran numero di lavoratori delle comunità montane, spostandoli dalle tradizionali occupazioni agro-pastorali a quelle minerarie. A questo periodo risale la costruzione della Ferrovia Marmifera Privata di Carrara, sulla quale attualmente ci sono progetti di rigenerazione urbanae del Porto di Carrara. Questo processo proseguì anche nel XX secolo, con la realizzazione di infrastrutture quali la diramazione della Teleferica del Balzone, nel 1907 e del ramo per Arni della Tranvia della Versilia, inaugurato nel 1923.
Nel XX secolo si fece ampio uso del marmo di Carrara durante il fascismo: Mussolini donò perfino del marmo per una delle due moschee della Spianata del Tempio di Gerusalemme.
Nel Dopoguerra, in particolare nel secondo, l'attività estrattiva è cresciuta a dismisura in termini di materiale rimosso, tanto che, la rivista Focus ha affermato che "negli ultimi 20 anni, qui si è scavato più che in duemila anni di storia", tuttavia il numero degli occupati diretti nelle cave è passato, secondo il Corriere della Sera, dai 16.000 degli anni '50 ai circa 1.000 di oggi In risposta a tale fenomeno è nato il movimento No Cav.
 
Vasi in marmo per lapide

Le cave

Le cave viste da Campocecina e il relativo impatto sulla morfologia dei luoghi.
Le cave sono luoghi dove da molti secoli avviene l'escavazione e la lavorazione del marmo e possono essere di due tipi: chiuse e a cielo aperto. Per il modo con il quale viene prelevato il marmo, la profondità di prospettiva delle pareti bianche, gli ampi spazi, la precisione simmetrica dei gradoni, i piani di lavorazione, sembrano gradinate di anfiteatri.

Escavazione e lavorazione del marmo

L'escavazione del marmo nelle Alpi Apuane risale ad epoche assai remote (I secolo a.C.) e ha subito nel secolo scorso profonde trasformazioni. Anticamente l'escavazione avveniva con metodi ed utensili molto semplici, quali picconi e piccozze, e con gran dispendio di tempo e lavoro per ottenere risultati modesti. Le indagini archeologiche hanno restituito alcuni degli strumenti impiegati nel corso del tempo, oggi conservati in gran parte al Museo del Marmo e dei Beni Culturali della città di Carrara.
Anticamente il lavoro essenzialmente manuale era svolto da una manodopera costituita in gran parte da condannati a lavori di fatica, schiavi e cristiani. I primi cavatori sfruttavano le fratture naturali della roccia nelle quali inserivano dei cunei di legno di fico che poi bagnavano con acqua, la naturale dilatazione provocava il distacco del masso. Per ottenere blocchi di dimensioni stabilite, i Romani ricorsero alla tecnica della "formella". Si praticava nel masso prescelto, lungo la linea di taglio, una scanalatura profonda 15–20 cm nella quale s'inserivano poi dei cunei di ferro che, percossi ripetutamente e a tempo, determinavano il distacco di blocchi di 2 m di spessore. Tali tecniche estrattive e quelle di lavorazione, come la segatura manuale, rimasero pressoché inalterate anche dopo la scoperta della polvere da sparo, il cui impiego si rivelò più dannoso che utile; infatti il marmo risultava spesso così frantumato da perdere qualsiasi valore commerciale. Solo in seguito con l'utilizzo delle mine con l'operazione chiamata la Varata (evento che lasciava tutti i lavoratori con il fiato sospeso) si poté distaccare una grande quantità di marmo senza danneggiare il prodotto stesso.
La vera e grande rivoluzione nella tecnica estrattiva avvenne alla fine dell'Ottocento con le invenzioni del filo elicoidale e della puleggia penetrante. Il filo di acciaio è un cavo di 4–6 mm di diametro, ottenuto dalla torsione ad elica di tre fili. Le scanalature così determinate hanno la funzione di trasportare e distribuire, lungo il taglio eseguito dal cavo, l'acqua e la sabbia silicea, originariamente proveniente da Massaciuccoli, che servono all'azione abrasiva. Il filo elicoidale, disposto in circuito su speciali pulegge di rinvio fissate ad appositi paletti detti potò, è lungo in genere alcune centinaia di metri e si muove ad una velocità di 5–6 m/s, mentre incide il marmo ad un ritmo di 20 cm l'ora. La puleggia penetrante è un disco d'acciaio caratterizzato sulla circonferenza, da una scanalatura e da piccoli denti diamantati.
Mediante questi due geniali accorgimenti tecnici la puleggia, scorrendo su un apposito strumento a cremagliera chiamata "macchinetta" che ne consente il regolare e continuo abbassamento, assolve contemporaneamente a due funzioni: mentre penetra nel marmo trascina nella scanalatura il filo elicoidale che provoca il taglio del blocco.
Prima di cominciare a tagliare a monte e iniziare sul piazzale qualsiasi lavoro, bisognava liberare la montagna da quella parte di roccia resa inservibile dall'alterazione superficiale. Per questo lavoro di agilità e perizia interveniva il "Tecchiaiolo" il quale aveva il compito di esaminare da vicino il marmo, liberandolo delle parti pericolanti: per fare questo doveva calarsi, appeso ad una fune, davanti al fronte di cava.
Il taglio al monte consisteva nell'isolare dal corpo marmoreo che costituisce il giacimento, una gigantesca porzione di roccia, detta bancata, di forma e dimensioni definite in funzione dei blocchi che si vogliono ottenere. Separata la bancata dalla massa rocciosa, i cavatori procedevano al suo ribaltamento sul piazzale di cava. Questa impressionante operazione presentava notevoli difficoltà e la sua esecuzione comportava seri rischi. Sul piazzale, intanto, si preparava il cosiddetto "letto" costituito da un cumulo di fini detriti di marmo misti alla fanghiglia prodotta da lavorazioni precedenti, per ammortizzare la caduta della bancata e limitarne le rotture. Una volta sul piazzale, la bancata veniva lavata per essere esaminata dai cavatori più esperti che ne individuano le impurità e segnavano i punti dove effettuare eventuali tagli.
L'operazione successiva era il ridimensionamento in blocchi di dimensioni commerciali con la tagliatrice a filo diamantato. Un'operazione delicatissima: ogni errore, infatti, rischiava di diminuire la resa dell'intera bancata e produrre blocchi di valore inferiore a quello che la qualità del marmo faceva sperare. Poi entravano in scena i riquadratori, che a suon di subbia e martello, cercavano di dare una forma quadrata al blocco. Era un lavoro difficile, pesante, e quei cavatori dovevano essere forti, pazienti e capaci.
Infine venne introdotto il filo diamantato, attualmente in uso, la cui introduzione inizialmente creò problemi di sicurezza lavorativa causa la facilità di sganciamento, problematica ora corretta.
Una volta estratto il blocco di marmo dalla cava, viene segato in lastre (2, 3 cm o più di spessore).
 
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